Vita da videomaker: intervista a Samuele Würtz

Come è cambiato, negli anni, il modo di fare promozione turistica attraverso i video e quali sono le sfide e le opportunità che presenta? Ne parliamo con Samuele Würtz, filmaker, fotografo e documentarista.

Samuele, che ha collaborato alla realizzazione delle campagne presentate in questo numero della rivista, si è formato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Gestisce la produzione di prodotti cinematografici a trecentosessanta gradi, dalla sceneggiatura al montaggio, ed è tra i soci fondatori del progetto di divulgazione Artescienza.

Come si è evoluta negli anni la promozione di una destinazione turistica attraverso il video?

Negli ultimi cinque-dieci anni le tecniche di racconto del territorio sono cambiate e si sono affinate, di pari passo alla crescita del settore turistico. Per rispondere alle nuove esigenze di comunicazione della promozione territoriale, gli operatori video hanno a loro disposizione strumenti sempre più raffinati e performanti e spesso tendono ad attingere alle tecniche del cinema e del documentario. E non è difficile crederlo, tenendo conto che in un certo senso la “vocazione” alla promozione turistica ha sempre fatto parte del cinema, basti pensare a film degli anni ’50 come Viaggio in Italia di Rossellini.

Ed è così che oggi assistiamo alla nascita di web serie e altri prodotti più strutturati, dal punto di vista narrativo, rispetto allo spot tradizionale. D’altra parte, il web e i social hanno complicato tutto, con la tendenza a richiedere video sempre più brevi, con scarso approfondimento.

La sfida più grande per un videomaker, oggi, è forse proprio la ricerca di un equilibrio efficace tra questi modi diversi, se non opposti, di raccontare un territorio, tra il bisogno di contenuti facili e veloci e la sempre maggior richiesta di formati più complessi.

Parliamo del tuo lavoro: qual è il tuo approccio quando devi raccontare il territorio attraverso le immagini?

Il linguaggio più affine a me è il documentario: i tempi sono molto diversi da quelli mordi e fuggi di uno spot tradizionale, ma cerco di proporre uno stile documentaristico nella promozione territoriale anche laddove i ritmi sono più serrati.

Le web serie, in questo senso, sono spesso un buon compromesso: permettono di adottare il respiro del documentario, di fermarsi, di predisporsi ascolto, magari anche andando a chiedere a chi abita e vive un territorio cosa lo rende particolare (come abbiamo fatto, ad esempio, nella prima stagione della web serie The Perfect Place di Finale Ligure). Non è più il caso di fare promozione turistica con due comparse che attraversano un paesaggio da cartolina… oggi è necessario uno spessore diverso.

Una necessità comunicativa o etica?

Sia comunicativa che etica. Il nostro è un territorio fragile e il turismo di massa può avere un impatto negativo. Bisogna tenerne conto: ascoltare le persone che quel territorio lo vivono. Dal mio punto di vista, la scelta del classico testimonial VIP che nulla ha a che fare con la destinazione da promuovere non è più praticabile.

In Italia, in questo momento, sono molte le riflessioni in atto sulla tutela del territorio e del paesaggio e chi si occupa di promozione turistica non può permettersi di ignorarle o banalizzarle. Sono la chiave di volta su cui si gioca il futuro del nostro Paese, un Paese dalla profonda vocazione culturale che non deve essere ridotto a uno slogan accattivante.

La comunicazione viaggia sempre più veloce, è vero, ma questa velocità non deve comportare la rinuncia all’approfondimento: le persone hanno bisogno di profondità, di stimoli. Altrimenti, il rischio è arrendersi all’appiattimento culturale, alla fruizione passiva dei contenuti. Meritiamo di meglio.

Come trovi l’ispirazione per un progetto e come identifichi i punti di forza di un territorio?

Ascolto, attenzione, tempo, dialogo. E un atteggiamento aperto nei confronti dell’imprevisto, una disposizione a cogliere le circostanze che si presentano.

Le deviazioni di percorso sono una ricchezza e purtroppo la realizzazione di uno spot tradizionale non le consente: lo spot classico è una macchina talmente oliata che non ti puoi permettere il cambio di rotta e l’improvvisazione.

È un peccato: i cambi di programma che nascono spontaneamente, le ispirazioni improvvise, sono stimoli creativi molto forti. È sempre la realtà, il vivere la situazione sul posto, che regala al progetto quel qualcosa in più.

Come funziona dal punto di vista pratico lo sviluppo di un progetto, dal primo brief del committente?

Dipende dal progetto e dal committente. Ho la fortuna di lavorare con art director con cui c’è stima e sintonia, magari rapporti di amicizia che durano da anni e che quindi consentono di sviluppare un dialogo serrato e costruttivo intorno al progetto, come nel caso delle campagne realizzate con Studiowiki.

In questi casi, c’è prima di tutto uno scambio di idee e ispirazioni: propongo cose che ho visto, non solo spot ma anche documentari o film, che possono offrire spunti interessanti. A seconda del progetto, da lì si passa alla stesura dello script e se necessario dello storyboard, dialogando parallelamente con il terzo interlocutore in gioco: il cliente. Quella è spesso la parte più complessa…

A proposito del cliente… Come concili la necessità di aderire agli obiettivi del cliente, generalmente orientati al marketing, con la tua visione creativa?

La differenza di visioni può diventare un limite, a volte anche grosso. Dipende dall’interlocutore. Però è un limite stimolante, sotto certi punti di vista: i limiti possono diventare una spinta all’immaginazione. Ti danno un confine, dei paletti intorno a cui sviluppare la creatività del progetto.

La stessa cosa, in grande, si verifica nelle arti, nel cinema: a volte sono i divieti, le limitazioni, a dare origine a nuovi spunti e linguaggi. Spesso invece sono solo delle gran seccature… Ma va bene così, fa parte del gioco.

Ci sono tecniche o strumenti che trovi utili per restituire allo spettatore l’essenza dei luoghi?

Una scelta, secondo me, molto funzionale in questo senso è “viaggiare leggeri”, con troupe snelle, ridotte, anche dal punto di vista dell’attrezzatura: cerco di evitare i grandi apparati, portando solo ciò che è strettamente funzionale al progetto.

Presentarsi sul territorio “a ranghi ridotti” permette di accorciare le distanze, di entrare in sintonia più rapidamente con le persone che stiamo intervistando. Viaggiare leggeri ha un altro vantaggio: si arriva un po’ ovunque. Per esempio, per la seconda stagione della web serie The Perfect Place avevamo una troupe ridottissima (appena due persone, non c’era neanche il fonico) e questo ci ha permesso una mobilità altrimenti impensabile.

Quali strumenti o tecniche usi invece malvolentieri?

Non sono un grande sostenitore del drone. Lo utilizzo, perché spesso viene richiesto dai committenti ma, secondo me, rischia di portare a quella banalizzazione dello storytelling del territorio a cui accennavo prima. Il punto di vista aereo di un drone non ha nulla a che fare con il punto di vista umano, con quella necessità di “far parlare” dall’interno chi il territorio lo vive per davvero.

È uno strumento diffusissimo perché usa focali ampie e permette di offrire allo spettatore scorci inconsueti sul paesaggio, ma è ormai inflazionato. Se posso, cerco di non usarlo, o di usarlo in maniera grafica e creativa. Un buon esempio? Le riprese aeree sui tetti per la web serie The Sound of Modena.

Come adatti il tuo metodo di lavoro a seconda del tipo di output che devi produrre?

Produrre uno spot è molto diverso da produrre, ad esempio, un documentario. Nei documentari i tempi si dilatano, c’è una cura maggiore per i dettagli: la fotografia, ogni singola azione in scena. Tutto è importante. Quando si girano output come spot ci sono ritmi più serrati, scelte più veloci e funzionali.

Il mio approccio, però, nei limiti del possibile non cambia: mi affido sempre agli stessi collaboratori, persone che si sono formate con me e che spesso condividono la mia passione per il cinema. Lavoro con loro perché mi trovo bene, la macchina è oliata e cerchiamo di avere un’impronta, uno stile riconoscibile in tutto quello che facciamo.

Come definiresti questo stile riconoscibile?

Dal punto di vista del linguaggio registico, tendo a usare inquadrature fisse che corrispondono a scelte di comunicazione precise. Per esempio, quando qualcuno parla lo inquadro senza sovrapporre immagini di copertura: quando dialoghi con una persona di solito la guardi negli occhi. Voglio restituire proprio quella sensazione, non staccando mai dai volti. Limito quindi i movimenti di macchina ma scegliendo inquadrature molto grafiche e attente alla composizione: questa cifra stilistica si ritrova quasi in tutti i miei lavori.

Ci sono poi i riferimenti, l’immaginario visivo: cerco sempre ispirazioni nell’arte e nelle scelte dei grandi registi. Le articolate simmetrie di Wes Anderson, le voci fuori campo dei film di Malick… Sono tutti riferimenti, spunti che si possono ripensare per creare qualcosa di nuovo.

Qual è l’aspetto più difficile del raccontare un territorio per immagini e qual è il più semplice?

Il più difficile è convincere i committenti, gli amministratori, di alcune visioni artistiche e creative. Non è una missione impossibile ma spesso si rivela lunga ed estenuante, proibitiva quando si lavora con tempi strettissimi.

La parte più semplice e stimolante del mio lavoro è invece l’incontro con il territorio, con le persone che lo vivono. Per questo motivo cerco di dedicarmi a progetti che hanno attivamente a che fare con il territorio, di conoscere le persone.

La vita, l’incontro, la scoperta sono importanti esattamente quanto il risultato finale, se non di più.

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