Il nostro viaggio alla scoperta del legame tra sapori e promozione territoriale prosegue con il racconto di due esperienze particolarissime. Due realtà di eccellenza, che si distinguono per la qualità della loro produzione e per un altro tratto comune: non avere la denominazione.
La prima è un’azienda vinicola: Cascina Iuli, una storia di passione e tradizione famigliare nel Basso Monferrato. La seconda è Storico Ribelle, la Società Valli del Bitto Spa, che in Valtellina preserva rigorosamente i processi produttivi del formaggio Bitto storico.
Questo articolo è frutto di una conversazione con Fabrizio Iuli e Paolo Ciapparelli (presidente uscente della Valli del Bitto Spa, a cui sta subentrando Carlo Mazzoleni), che ci hanno raccontato la storia delle due realtà, il legame fortissimo tra prodotto e regione di provenienza, il percorso e le scelte che hanno portato al non avere denominazione e il loro approccio al tema della promozione territoriale.
Come nasce la vostra realtà e come si struttura oggi?
Fabrizio Iuli: Cascina Iuli è nata un po’ per passione, un po’ per caso. Mia madre aveva un ristorante mentre mio padre e mio nonno facevano gli agricoltori: avevano un ettaro di vigna, imbottigliavano e vendevano il vino della casa nel ristorante di mia madre. Io avevo studiato oreficeria: ho ereditato la vigna di mio nonno e di mio padre e ho deciso di dedicarmi a questo mestiere. La prima vera annata di produzione è stata nel 1999.
Attualmente produciamo varietà classiche come Barbera, Nebbiolo, Grignolino e Pinot Nero, ma anche antiche varietà piemontesi abbandonate come Slarina e Baratuciat. I vigneti, per un totale di 15 ettari, si trovano nei comuni di Cerrina Monferrato, Odalengo Grande, Castelletto Merli e Ponzano, in terreni dal suolo bianco argilloso-calcareo.
Paolo Ciapparelli: L’avventura di Storico Ribelle è iniziata nel 1994: trent’anni di storia “travagliata”, in difesa delle piccole realtà locali, attraverso la costituzione della società Valli del Bitto Spa. Quella del formaggio Bitto Storico è una produzione ridottissima: una decina di aziende, per circa un migliaio di forme l’anno.
Molti produttori, per ottenere la DOP, hanno modificato il disciplinare, con l’inserimento di mangimi e fermenti. Le aziende associate a Storico Ribelle, invece, hanno scelto di mantenere la lavorazione tradizionale: un metodo dalla storia antica, fortemente incentrato sulla difesa della biodiversità dell’erba dei pascoli. Non è stato possibile trovare una mediazione rispetto a questi aspetti. È un dato che dovrebbe far riflettere: cultura, storia e ambiente si sono scontrati contro a logiche produttive. Per noi sono invece valori fondamentali, da tutelare.
Qual è l’ingrediente del successo? Cosa rende unico e diverso il vostro prodotto?
F.I.: In generale, la specificità che ricerco è provare a fare vini giocati più sull’eleganza che sulla dimensione. Dinamici, freschi, non banali, recuperando anche varietà piemontesi abbandonate. Questa ricerca si declina nei processi produttivi tradizionali che scelgo di seguire. Per esempio, un tempo nelle vecchie vigne si trovava un misto di uve diverse. Oggi, se pianti un ettaro di Barbera, sei obbligato a mettere solo Barbera. Io produco un vino che riprende la tradizione della cofermentazione di uve bianche e rosse.
Va in questa direzione anche la scelta di fermentare il vino in cemento e in grandi botti di legno, i contenitori tipici della tradizione regionale piemontese.
P.C.: Il divieto assoluto di usare integrazioni: un pascolo basato esclusivamente sull’erba, e sulle differenze di erbe tra i vari alpeggi, con risultati diversi. Il rispetto del bestiame, attraverso la scelta di razze adatte alla montagna, che producono meno latte.
Ci siamo ritrovati a difendere strenuamente queste scelte, che non venivano ritenute commercialmente vantaggiose: oggi sono temi di grande attualità, si sta capendo che la produttività non è il dato più significativo, in un’economia sana.
Il Presidio Slow Food è stato un aiuto prezioso in questa battaglia: Storico Ribelle incarna alla perfezione i valori di cui Slow Food è portavoce.
Quali sono i pro e i contro del non avere la denominazione?
F.I.: Prendere la decisione di uscire da una denominazione, per quanto mi riguarda, rappresenta una sconfitta. Soprattutto perché stiamo parlando di vini prodotti con metodi tradizionali, che a maggior ragione dovrebbero essere strettamente riconducibili al territorio e alla sua storia. Non so se ci siano dei pro: dal mio punto di vista, se si ritengono le regole di un gioco sbagliate, è meglio non giocare. Non credo, in ogni caso, che sia la denominazione a garantire la qualità di un prodotto.
P.C.: Per una produzione piccola come la nostra, la denominazione non è determinante. A fare la differenza è la considerazione che si acquisisce nel tempo con gli intenditori: siamo stati fortunati ad avere il sostegno di Slow Food, che ci ha aiutati a raggiungere una dimensione internazionale, creando un interesse diffuso intorno a un prodotto artigianale e locale.
La DOP per noi ha rappresentato più che altro un problema: di fatto, è stato creato un altro Bitto, concorrenziale con il nostro prodotto storico.
In che modo, per voi, la promozione del prodotto si lega alla valorizzazione del territorio?
F.I.: Quattro anni fa abbiamo dato vita a un progetto ambizioso: una scuola parentale bilingue, di impronta steineriana, che va dall’asilo alle medie. La scuola prevede moltissime attività all’aperto e un programma alimentare sano, gluten free: il nostro obiettivo è aiutare i bambini a sviluppare un pensiero critico, mantenendo un saldo contatto con la natura.
Questa scelta è stata fatta anche in un’ottica di valorizzazione e riscoperta del territorio: nella nostra frazione, Montaldo di Cerrina, erano rimasti 72 abitanti. Ora sono circa 140, con 29 bambini residenti, grazie alla scuola. Si sono trasferite famiglie da ogni parte del mondo: americani, australiani, olandesi, tedeschi…
Crediamo poi che la bontà del vino stesso sia un modo straordinario di raccontare e far conoscere il nostro territorio: questa zona è ad appena quaranta minuti da Torino, un’ora e dieci da Milano e una da Genova, ma sembra “fuori dal mondo.”
È un’area selvatica, boschiva e bellissima. Che trova voce anche attraverso il sapore del vino, nei terreni bianchi e calcarei dei vitigni.
P.C.: Abbiamo aperto al pubblico due luoghi, per raccontare la produzione del Bitto Storico e permettere ai visitatori di assaggiarlo. Il Centro del Bitto, a Gerola Alta, è la “Casèra” in cui viene stagionato il formaggio, in maniera del tutto naturale, per farlo maturare nel modo migliore. Nella narrazione del prodotto, al Centro del Bitto c’è una componente emozionale forte: non esiste una forma uguale all’altra, la perfezione risiede proprio nell’imperfezione. Questi aspetti piacciono moltissimo ai visitatori: basta uno sguardo per capire quanta cura e quanta passione ci siano nel nostro lavoro.
E poi c’è Palazzo Folcher, nel centro storico di Morbegno, con le sue cantine del 1600. Lì abbiamo costruito dei percorsi storici tematici, per raccontare i formaggi orobici. La componente dello storytelling è importante quanto le degustazioni: crediamo sia fondamentale, per avvicinare i visitatori alla scoperta del territorio, del mondo contadino.
In generale, il Bitto Storico oggi è un’icona internazionale: il suo successo dipende anche dalla capacità di attrarre turismo di qualità, di coinvolgere le persone su livelli diversi.
L’Italia è costellata di tante piccole produzioni e la loro tutela è importante su un piano filosofico, ambientale, culturale. Sono temi che toccano da vicino il nostro futuro: un futuro che passa anche dalla difesa delle radici e del passato.