Comunicazione in pandemia

I risultati dell’indagine Censis

Se è vero che il web è una prateria infinita è anche vero che ciascuno decide quali sentieri percorrere e che quei percorsi sono fortemente influenzati dal proprio stile di vita, dal proprio modo di pensare e dal proprio ambiente di riferimento. Il rischio è tangibile: andare sul web ma rimanere fuori dalla realtà, tanto più per le fasce più deboli della popolazione.

L’ulteriore rischio, accentuato durante la pandemia, è che anche l’informazione ufficiale produca confusione generando disinformazione e ciò è vero soprattutto per le notizie specialistiche, settoriali, di difficile interpretazione e che producono ripercussioni sui comportamenti collettivi.

È quanto afferma il Censis con i risultati dell’indagine pubblicata a fine aprile: una bulimia comunicativa che genera confusione nel cittadino.

Si è parlato spesso della spinta in avanti che la pandemia ha “regalato” alla digitalizzazione. Però se è vero che il digital divide diminuisce, ciò che aumenta è l’information gap: la differenza tra chi è in grado di decodificare e selezionare le buone dalle cattive notizie.

Con il web la filiera dell’informazione si è ampliata ma accorciata: spesso produzione/distribuzione e consumo coincidono, in un processo di democratizzazione di massa cui tutti partecipano. Una garanzia di libertà e pluralismo, ma anche il rischio di “saltare” in questo processo i soggetti che intermediavano e che garantivano la verifica e la selezione delle notizie.

Qualche dato: 50 milioni di italiani, pari al 99,4% degli italiani adulti, hanno cercato informazioni sulla pandemia attraverso diverse fonti, informali e non, creandosi un personale palinsesto informativo in cui sia i media tradizionali che i social hanno avuto un ruolo rilevante. Il rapporto elenca la classifica delle fonti: al primo posto TV e media tradizionali. Seguono i siti internet di fonte ufficiale, al terzo posto i social e siti internet non ufficiali e solo al quarto posto il medico di medicina generale.

L’hanno chiamata l’infodemia comunicativa: l’intero sistema dei media ha risposto alla fame, alla domanda di informazione rispetto alla pandemia, moltiplicando la propria offerta e ciò ha disorientato le persone perché si è riscontrata una carenza di flussi informativi specifici, utili e soprattutto univoci. Sono gli stessi italiani a denunciare questo rischio.

Ma oltre alla confusione abbiamo assistito a un fenomeno ancora più pericoloso, in quanto doloso: la proliferazione incontrollata di fake news. Nella maggioranza dei casi notizie che hanno circolato come se fossero vere e che hanno avuto ripercussioni negative aumentando l’allarme sociale, diffondendo la convinzione che le misure che si stavano prendendo non fossero quelle giuste e spingendo ad adottare comportamenti autolesionistici. Fake news – che spesso sfociano nel complottismo – generate e diffuse anche da personalità politiche di rilievo mondiale. Ne avevamo parlato a lungo qualche mese fa in un articolo dedicato a QAnon qui su INova (leggi l’articolo).

Il regno incontrastato delle fake è stata la rete: sono 29 milioni (il 57% del totale) gli italiani ad essere incappati in fake news sul web. Il Coronavirus ha portato all’attenzione di tutti quali siano i pericoli che si annidano in una comunicazione senza filtri, proliferante, disordinata, alimentata da chiunque e in ogni luogo, che ha nel web l’epicentro del pericolo di disinformazione e di circolazione di fake news. Pericoli riconosciuti dagli stessi gestori delle piattaforme firmatarie del Codice europeo di condotta contro la disinformazione che durante il coronavirus hanno adottato una serie di misure per promuovere le fonti autorevoli, declassare i contenuti falsi o fuorvianti e rimuovere quelli illegali o che potrebbero provocare gravi danni per la salute.

Obiettivi che sono condivisi anche dalla maggior parte della popolazione, come dimostrano le risposte alla domanda su “quali interventi sarebbero più urgenti per arginare il proliferare di fake news”: pene più severe, obbligo di rimozione delle fake, obbligo di fact checking, campagne di sensibilizzazione all’uso consapevole dei social, posizione privilegiata sui motori di ricerca per la comunicazione istituzionale e di qualità, premi per le piattaforme che si impegnano per un’informazione di qualità. Si tratta di tematiche a cui sono sensibili soprattutto i giovani (18-34enni) e coloro che hanno un più alto grado di scolarizzazione.

Il Covid ha messo in evidenza un ultimo aspetto: il rischio di non riuscire a discernere tra notizie vere e false si può verificare anche nel sistema dei media, dove la possibilità di verifica dell’attendibilità delle notizie è messa in crisi, da un lato, dalla contrazione degli organici e dalla riduzione degli investimenti, e dall’altro, dalla moltiplicazione delle fonti informative e dall’accorciamento della vita media delle notizie: l’urgenza di uscire. Vecchi e nuovi media hanno bisogno di figure esterne affidabili e competenti, che garantiscano sulla qualità delle notizie, anche su quelle che girano in rete.

Clicca qui per scaricare e leggere il rapporto integrale del Censis

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