La nostalgia dell’origine

Chi non è abituato a pensare alle campagne di comunicazione, o non le pensa, o ha un’immagine un po’ distorta (e stereotipata) di quello che sono; chi le pensa, o le deve pensare perché è diversamente coinvolto nei vari ruoli imposti dal processo di comunicazione del nostro ambito professionale, mi riferisco a direttori creativi, art, copy, strategist, addetti stampa e – oggi – content creator e video maker, in alcuni casi rimane un po’ ancorato a una bella concezione di scuola, anche di per sé legittima, ma non per questo adatta al nuovo mondo, liquido forse viscido, secondo la quale le campagne di comunicazione sarebbero un bel poster, un bel visual, una bella headline, accompagnate – magari – da un claim e una body copy (perdonerete i forestierismi, ma il linguaggio settoriale del marketing e della pubblicità è dominato dalla terminologia tecnica di matrice anglofona), che ci restituiscono, con l’immagine (che alcune volte accompagna e altre prelude), una precisa concezione del mondo, della sua estetica, del suo essere.

Queste sono le campagne di una volta, secondo me. Belle, forti, precise, rotonde, chiuse. Eh, “qui una volta era tutta campagna”. Oppure, “negli anni Ottanta sì che la pubblicità era pagata bene”. Cose così. Boh, io non ho mai fatto il contadino, e neppure il pubblicitario negli anni Ottanta. Quando la terra era bassa come oggi ma i pubblicitari si arricchivano con messaggi che oggi non riuscirebbero a suscitare sommovimenti tellurici nemmeno nella psichè di mio figlio che (ndr) ha appena compiuto sei anni.

Oggi, “la musica è cambiata”. Radicalmente. Che i mercati sono conversazioni è ormai abbastanza conclamato, lo dicono – e lo diciamo – dal 1996. Che le campagne sono conversazioni, forse non lo abbiamo ancora detto con sufficiente chiarezza. Prendi un contenuto, un’idea, un messaggio. Chiamala come vuoi. Emozioni, se vuoi. Vestila di immagini e parole. Poi mettila in circolo. Diventerà, per fortuna, qualcosa d’altro, forse di meno, quasi sempre di più rispetto a quello che tu hai pensato.

La comunicazione, ma forse la marca nel suo spettro di significazione totale, è stata superata dalle sue audience. Il ruolo della marca, oggi, crediamo, sia essa quella dei prodotti commerciali, sia essa quella del territorio, che sempre più si sta avvicinando alle prime, non è quello di veicolare messaggi, nemmeno quelli etici che prima erano appannaggio di preti e partiti politici. La marca, negli ultimi 20 anni, ha fatto una cosa molto precisa. Ha riempito spazio vuoto lasciato da Peppone e Don Camillo. Ha preso posizione, ha fornito una precisa idea dello spirito del tempo. Ha contribuito, in maniera fondamentale, e da punti di vista anche profondamente diversi, a determinarlo.

Oggi siamo a una terza fase della conquista, ormai legittimata dal vuoto e dal nulla di tutto il resto, della marca. Se la prima fase, novecentesca, era quella in cui la marca non si permetteva altro lusso se non quello di promuovere il prodotto, e la seconda fase, a cavallo fra il XX e il XXI secolo, era quella in cui la marca occupava lo spazio vuoto lasciato da religione e politica, oggi assistiamo al sorgere di una nuova era per la marca, ovvero quella per la quale “marca” vuol dire tutti e non “uno”. Il rapporto emittente “unico” e ricevente “molti” si è ristrutturato.

La marca oggi insiste nel creare uno spazio vuoto per dare la possibilità alle sue audience di riempirlo con contenuti generati dall’intelligenza collettiva. Un influencer, da solo, è stupido. Molte persone, insieme, non si capisce bene ancora il perché, diventano intelligenti, anche quando la singolarità dei loro atti emissivi resta profondamente stupida. Il terzo, e certo non ultimo atto della marca, quello a cui stiamo assistendo in questi anni, consiste, sostanzialmente, nel fare spazio ad altro. E questo spazio è l’altro, anzi, sono gli altri. Vista così sembrerebbe una figata. Evviva, la marca si fa da parte e lascia spazio. Assolutamente no, non è vero. È molto peggio di come sembra.

La marca traccia i confini. È un cerchio chiuso. Se stai dentro a quel cerchio vuoto nel quale la marca ti consente qualunque atto di significazione, fai parte di una comunità che ti riconoscerà come integrato, se – però – deciderai di stare fuori dal confine che la marca ha disegnato per te – e per tutti noi – allora, in quel caso, ti troverai davanti a un’alternativa che – però – non potrai scegliere. Dentro il cerchio della marca e della società che le marche stanno sempre più contribuendo a disegnare sarai libero di essere e fare ciò che vuoi. Ma fuori dal cerchio vuoto e libero, e liberato, che la marca ha tracciato per te, troverai solo deserto. In quel deserto ti sono date, come si diceva, due opzioni, due alternative. Peccato che non sarai tu a sceglierle.

Opzione uno: escluso. Morto fuori dai confini, ignoto. Opzione due: il tuo essere contro è così interessante, perché costruito su posizioni profonde e buone, che verrà fatto proprio dalla marca e da chi sta dentro il cerchio. Insomma, da fuori, avrai contribuito a migliorare il dentro. Congratulazioni. Non sei altro che nicchia, ispirazione fecondissima di marca.

Le marche ci raccontano che parlano a persone, non a target. Beh, non è vero. Se volessero parlare con le persone gli telefonerebbero, come si faceva una volta tra amici lontani che avevano voglia di sentirsi. Le marche, oggi, fanno quello che facevano nell’Ottocento, promettono elisir di lunga vita che non esistono. Sono acqua colorata. Ma lo fanno raccontando sé stesse come entità viventi piene di personalità, amore, e tutte le virtù cardinali e teologali. Le marche promettono, storicisticamente, e non c’è bisogno di citare Popper, tacchini e miserie del fine ultimo, ovvero degli storicismi tutti, l’arcadica bellezza al termine del cammino. Promettono la libertà.

L’unica risposta, forse, sta nella constatazione della miseria di essere liberi. Probabilmente hanno ragione Carmelo Bene (quando da Maurizio Costanzo, a proposito di roba del Novecento, che nostalgia…) proponeva di liberarsi dalla (ma io direi “della”) libertà e – con lui – Enrico Testa che avrebbe chiosato, laconico e aspro come solo lui sa essere, è solo “la nostalgia dell’origine”.

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