Un viaggio in due puntate
La felicità è il motore del mondo perché l’insoddisfazione, la nostalgia dell’origine, sono caratteri propri dell’uomo, benché l’uomo non sia biologicamente fatto per soffrire. Questa è una bella contraddizione. La felicità è un desiderio. È il desiderio, l’unico, quello che alberga silenzioso in tutti gli altri. Le grandi ideologie totalitarie del Novecento, con il loro storicismo (fine ultimo della storia) promettevano la felicità al compimento dell’uomo nuovo (nazifascismo); della società nuova degli uguali (comunismo). Le religioni promettevano (e promettono) di assolvere al bisogno di felicità con la vita ultraterrena dopo la morte. Credere è un atto di fede e di abbandono a quella promessa di felicità che certamente può rendere migliori anche in questa vita terrena. Senza necessariamente rendere migliore questa vita terrena stessa. Credere, insomma, può rendere migliori noi, non la vita. Le religioni orientali hanno cercato la felicità totale in terra: il nirvana. Poi ci sono state le filosofie stoiche ed epicuree, anche loro impegnate con il tema della felicità. La felicità: l’assenza delle passioni.
Poi pensiamo alla coppia felicità-piacere, e sua totale impossibilità, che da Schopenhauer in poi, via Leopardi, uniforma di sé – con lo Sturm und drang – il movimento romantico che, a sua volta fissa le regole artistiche entro le quali ci muoviamo ancora oggi, senza soluzione di continuità.
Tuttavia, le grandi ideologie del Novecento sono passate, la società è sempre più secolarizzata. Chi può promettere oggi il paradiso perduto? La marca. Nella marca, verso la marca, rivolgiamo la nostra richiesta di felicità. E chi è che si occupa di parlare per (nel senso della marca e al posto della marca e a favore della marca) la marca: la comunicazione.
Interroghiamoci allora su che cosa la comunicazione rappresenti all’interno della semiosfera e del tessuto economico-sociale delle società occidentali contemporanee. Pensiamo possa predicare meglio quello che siamo.
Interrogarsi costantemente su che cosa l’oggetto e il soggetto del nostro lavoro quotidiano sia ed esprima nell’oggi e per l’oggi crediamo renda migliore il nostro lavoro di comunicatori. Assistiamo alla nascita di quello che potrebbe essere un concept creativo: LA COMUNICAZIONE CHE FA
LA COMUNICAZIONE: soggetto preceduto dall’articolo determinativo, intesa nel suo senso universale di attività umana da una parte e, vista la natura dell’emittente (Studiowiki), intesa nel suo senso particolare di ars (arte e tecnica posseduta da professionisti di quello specifico campo).
Il verbo FARE: all’indicativo presente della terza persona singolare: FA. Ella, la nostra dama bianca: un “vivo per lei”. Nel verbo fare è contenuta una sufficiente pluralità di significati da permettere il suo utilizzo in una infinita quantità di contesti differenti. Fare ha in sé la semantica della stragrande maggioranza dei verbi di azione. È indefinito di un’indefinibilità felice. In questo contesto (comunicativo ndr) non ci serve maggiore specificazione, anzi miriamo alla massima apertura possibile su quell’universo di possibilità che la comunicazione dà e fornisce: FA, appunto. Miriamo, meritiamo e dobbiamo avere il coraggio di quest’apertura.
Ci si potrebbe fermare qui. Ma pensiamo non basti. Se fa, bisognerà dire e dirci che cosa fa.
Qui il rischio è quello di cadere nell’ovvio. “La comunicazione che fa… la differenza”. “La comunicazione che…conta”. “La comunicazione che fa…cagare”. Beh, c’è anche quella, ma speriamo non sia il caso nostro.
Ci viene in soccorso dalla seconda metà del secolo XIX, Comte, con la sua teoria positivista del determinismo storico. L’uomo è determinato nella sua struttura da tre variabili che si ripetono e si ritrovano sempre uguali a sé stesse: la razza, il luogo, il momento storico.
Il passaggio è tanto naturale che rischia di essere scontato. Quindi cerchiamo di rendere più polisemiche e accattivanti, cerchiamo cioè di fare quel lavoro di vestizione comunicativa, le tre categorie comtiane.
La razza: la specie.
Il luogo: lo spazio.
Il moneto storico: l’epoca.
E così, forse, ci siamo… continua giovedì prossimo