Seconda puntata
La comunicazione che fa SPECIE.
La comunicazione che fa SPAZIO.
La comunicazione che fa EPOCA.
Riusciamo, così, al medesimo tempo, mentre affermiamo quelle che per noi sono le caratteristiche della comunicazione, a essere metacomunicativi e polisemici.
L’ermeneutica
La comunicazione che fa specie vuole dire che “determina” quello che siamo come uomini del nostro tempo ma anche che “stupisce”, dall’adagio: “questa cosa mi fa specie”
La comunicazione che fa spazio vuol dire che rende possibili nuove aperture di senso: modifica, forza, porta avanti la significazione. Guadagna futuro. Governa il cambiamento. Non è come l’angelo di Klee letto da Benjamin che, con lo sguardo rivolto al passato, è trascinato dal vento del futuro, bensì con lo sguardo saldo nel futuro che essa evoca in ogni suo atto riuscito si nutre della tradizione, della memoria dei secoli e delle ere passate. C’è nella comunicazione – qui nel suo senso più ampio – un’intelligenza del mondo animale, vegetale, persino geologico. Che gli animali comunichino è palese, che lo faccia il mondo vegetale è più difficile da capire, ma oggi sappiamo essere così. Che l’inanimata geologia comunichi, certo può apparire strano, eppure a suo modo lo fa. Ma riprendiamo il filo del discorso. Parlavamo di quell’atto peculiare e volontario compiuto dai comunicatori che è, grazie all’ars come tecnica padroneggiata, la comunicazione che fa spazio. Questo concetto del “fare e farsi spazio” è preso dal Der kunst di Heidegger, un libretto fitto ma di poche pagine nel quale il filosofo si interroga, tralasciando per un po’ il discorso sull’ontologia dell’essere e concentrandosi invece sull’interrogazione estetica, su che cosa l’arte sia e che cosa l’arte faccia. Alla fine, ci dice che, tutto sommato, l’arte fa spazio. L’arte non riempie, toglie. Apre, tornando alla sua ontologia dell’essere tanto cara, le infinite possibilità dell’essere all’esserci (Sein – Das-Sein). E se l’arte, secondo Heidegger, fa spazio, la comunicazione, come forma peculiare fra le arti fa spazio a sua volta. Alla comunicazione l’onere e l’onore di doversi far capire se vuole essere una comunicazione “buona”, “bella”. In una parola: riuscita. Di valore. Una comunicazione Kalos kaiAgatos. Problema del destinatario, insomma. Del keep it simple, stupid!
Un problema che, dalla fine dell’arte bella in poi, dalla fine della referenza in arte, dal dispiegamento completo dello Spirito (come direbbe Hegel), dal romanticismo, per dirla più semplicemente, tutta l’arte non ha più. Che poi si voglia rispondere a questo stato di fatto attribuendone la ragione alla perdita della committenza in arte è tutto un altro ordine di problemi che non è tempo di affrontare qui. Tuttavia, l’assioma divorzio dell’arte dal potere e dalla sua committenza compiutosi con il romanticismo, la perdita – anche fortunata – in arte del problema del destinatario, lo spazio vuoto che ne è derivato e la relativa occupazione di quello spazio dalla comunicazione e dalla sua “nuova” committenza borghese della marca (leggi seconda rivoluzione industriale) che si è subito, nel giro di un centinaio di anni, fatta carico di quel “problema destinatario”, pare uno stringente processo di causa effetto che è difficile da ignorare. Agli albori della pubblicità per come la concepiamo oggi, ovvero nella Parigi della Belle Époque, l’artista e il pubblicitario erano la stessa persona. Questa unità progressivamente andrà a spegnersi. Gli artisti faranno gli artisti, i pubblicitari i creativi.
E poi c’è la vita, sempre pronta a smentire le regole del pensiero. Infatti, tutta l’arte che, per usare una categoria gramsciana sempre funzionale, si colloca nell’alveo del nazional-popolare non tralascia per un momento il “problema destinatario”, ovvero il problema della fruizione, decodificazione, intellegibilità, comprensione quanto più ampia possibile del messaggio. Da questo punto di vista la comunicazione pubblicitaria può essere intesa come l’unica forma d’arte che è per sua intrinseca natura nazional-popolare. O è nazional popolare o non è comunicazione. Per usare un altro aforisma. Insomma, la comunicazione pubblicitaria sembra nutrirsi dell’arte del tempo presente fornendole un precipitato comprensibile ai molti, dove la prima resta un discorso per i pochi. La comunicazione pubblicitaria è la messa a terra dell’impianto di produzione artistico-culturale.
Dopo questa ampia digressione torniamo all’ultima delle tre affermazioni.
La comunicazione fa epoca vuole dire che determina il modo di essere di un’epoca e ne fornisce, posteriormente, la chiave di lettura. Non mi dilungo. Faccio un esempio. Possiamo usare tante definizioni per predicare la Milano di Craxi e Berlusconi, la Milano rampante, la Milano degli anni ’80. Ma, forse, la più funzionale e omnicomprensiva è “la Milano da bere”. Lo slogan dell’amaro Ramazzotti.