Le dodici notti è una fiaba di Natale nata dalla libera rielaborazione narrativa del patrimonio folklorico ligure. Ecco la seconda puntata della fiaba, scritta da Federico Alberto, direttore creativo di Studiowiki ed è un regalo che facciamo a tutti i lettori di INova per l’inizio del nuovo anno.
Buona lettura!
Ovvero la storia della bella Adelasia e del coraggioso Aleramo che infiniti pericoli affrontò per amarla
Personaggi
Adelasia – la principessa amata
Aleramo – l’eroe innamorato
Alfonso II – monarca, padre di Adelasia
Regina Luna Piè d’oca – moglie di Alfonso II, zia di Aleramo
Oleastra – regina delle fate, zia di Aleramo
Belenda – sorella di Oleastra e Regina Luna Piè d’oca, madre naturale di Aleramo
Mendaro – cavaliere del regno, marito di Belenda, padre naturale di Aleramo
Benso – contadino, padre adottivo di Aleramo
Lisa – moglie di Benso e madre adottiva di Aleramo
Lamia Sabiana – regina delle streghe e dei krampus
Vendemmiale – re dei folletti
Malco – principe saraceno
Merudina – guerriera saracena
Sibillo e Salop – generali saraceni
Ondine e Coralline – schiera delle fate
Strie e Basure – schiera delle streghe
Il piccolo popolo – schiera dei folletti
Babbo Natale – protettore dei bambini
Rupel – consigliere di Babbo Natale
Sesta notte. La follia, dove Aleramo, distrutto, vaga alla ricerca di Adelasia.
Giunta che fu a palazzo la notizia del rapimento, volò veloce di bocca in bocca e giunse subito agli orecchi di Aleramo. Un grande dolore gli invase il petto. Cercò di serrarlo in fondo al cuore. Ma il solo pensiero di aver perso per sempre l’amata Adelasia, di non poterla mai più rivedere, e di essere condannato a passare il resto dei suoi giorni in solitaria compagnia, privato dell’unico bene che vedeva al mondo e per il quale continuava a vivere e lottare lo misero in uno stato di dolorosissima prostrazione. Lacrime e sospiri faticava a trattenere l’afflitto Aleramo. E alla fine, conscio di non poter più porre un freno al grave dolore, si lasciò andare ai più tristi pensieri. Giù dagli occhi per le guance sparse un fiume di lacrime sul petto. Sospirava. Cercava il letto ma gli pareva più duro che un sasso e più pungente dell’ortica. Ogni luogo del giardino e del palazzo gli ricordava le ore felici trascorse tra mille e mille baci, sempre insieme alla sua Adelasia. Decise così di andarsene. Prese le armi e il suo destriero e uscì dal palazzo. In mezzo al bosco, una volta trovatosi completamente solo, lanciò urla e grida come per far uscire il dolore dal petto. Non si dava pace. Fuggiva i villaggi e le città. Restava nascosto nel folto degli alberi, senza dormire, senza mangiare, solo errando sbalordito dal dolore: in un pianto infinito. “Queste non son lacrime, questi non posso essere semplici sospiri ché dovrebbero aver tregua almeno ogni tanto. Non sono più io, non sono più in me: quel che era Aleramo è morto per sempre.” E il dolore e il pianto si trasformarono in rabbia, ira, e furore. Tutto distruggeva con la sua spada. Alberi, massi, laghi e fiumi. Niente si salvava al suo passaggio. Poi cadeva stremato a terra guardando le luminose costellazioni: sempre sospirando e maledicendo il mondo. Gridava il suo dolore ai prati e il nome della bella Adelasia agli alti monti che gli facevano eco. Le fate e i folletti del bosco guardavano tristi e spaventati la follia del povero cavaliere. Pregarono Oleastra di volgere lo sguardo all’infelice e di tentar di porvi rimedio. Oleastra, convinta da Vendemmiale che la pregava cercando di convincerla di quanto sarebbe stato opportuno un suo intervento magico per ridare Adelasia al suo amato e ristabilire così l’ordine nel regno, si decise alfine a prendere il giovane ancora una volta sotto la sua familiare protezione. Apparve ad Aleramo in una soleggiata radura in mezzo al bosco. Il cavaliere stava lottando a mani nude contro un grosso cinghiale: l’aveva ormai quasi domato grazie alla sua inumana forza guidata solo dalla pazzia, quando la dea gli si parò davanti. “Smetti di affliggerti, Aleramo. Ora devi raccogliere le forze per riprenderti ciò che tuo ti è stato sottratto dalla perfida malvagità dei nostri nemici. Ricorda i miei insegnamenti di quando eri poco più di un bambino. Ricorda quello che ti diceva il saggio Vendemmiale sulle virtù del cavaliere. Torna in te e disponiti con animo forte e fiero a questa dura lotta che ci aspetta. La bella Adelasia è stata rapita dalle infide Basure di Lamia Sabiana, che l’ha fatta rinchiudere prigioniera nel profondo Buranco. Dovrai andare a salvarla, solo così potrà ancora essere tua. Prendi questa fiala, contiene una magica pozione che farà addormentare le ombre del regno dei morti. Ma bada, la pozione, benché forte, non può tutto contro gli spiriti infernali che abitano il terrificante Buranco. Dura solo il tempo di una notte, e se non vorrai restare anche tu imprigionato dentro la faglia orribile, vi dovrai scendere con animo casto e puro. Dovrai avere fiducia in te stesso, nella forza del tuo amore e nella forza della magia buona che io e Vendemmiale ti portiamo. Io non potrò scendere con te, ti aspetterò sulla soglia: quei regni d’oltretomba sono interdetti al nostro popolo.” E così dicendo scomparve poggiando la magica pozione ai piedi di Aleramo.
Settima notte. L’entrata nel Buranco, dove Aleramo, dopo aver affrontato il Basilisco, scende nel Buranco e libera Adelasia.
Aleramo si riebbe come da un sogno sognato a occhi aperti. Non perse altro tempo, già troppo ne era stato speso in inutili compianti. Riprese l’armatura e l’elmo, si rivestì, e sellato il cavallo si avviò al galoppo sul sentiero che conduceva al pertugio infernale. Oleastra già lo attendeva innanzi all’ingresso. Ma non era purtroppo la sola. Il terribile Basilisco, temuto guardiano del Buranco, uscì con un salto e tentò di addentare Aleramo. Il Basilisco era un animale orribile, aveva il potere di pietrificare il malcapitato che incrociasse per ventura il suo sguardo, e il suo alito era velenosissimo, bastava respirarne i fumi per rimanere a terra immobile. E una volta a terra il Basilisco divorava la sua preda intera e viva, digerendola lentamente nello stomaco. Si dice che il Basilisco sia nato dall’uovo deposto da un gallo di sette anni, fecondato da un serpente e covato da un rospo. Ha testa di falco con sopra una cresta di gallo dorata, il corpo di rettile squamoso, la coda di serpente e quattro zampe di rapace. Una visione orribile! Aleramo indietreggiò, ma Oleastra era lì a proteggerlo. Chiamo in aiuto le fate e i folletti. Due folletti si trasformarono, l’uno in donnola, l’altro in gallo. Dovete sapere infatti che il Basilisco ha per soli nemici che possono sconfiggerlo questi due all’apparenza innocui animali. La donnola gli si infilò svelta tra le zampe e cominciò a mordergli i calcagni senza lasciarsi afferrare. Il gallo cantò forte. Il basilisco non poteva sopportare il canto del gallo e si fermò come impietrito. Allora Aleramo ne approfitto per puntare la sua grande e luminosa spada nello sguardo della bestia. Questa affondò gli occhi nella specchiante arma e rimase pietrificato dalla sua stessa vista.
Colmo di spavento, Aleramo poté avventurarsi per lo stretto cunicolo che dava accesso al regno dei morti. “Com’è terribile questo luogo!” Si udivano lamenti tanti, come strida di uccelli rapaci, e latrati, come di cani e fiere infernali. Aprì la fiala che conteneva la pozione datagli da Oleastra, e cominciò a farsi strada tra le prime anime che gli si facevano sonnolente incontro lungo il cammino. Iniziò allora la sua preghiera, rivolgendosi così a Lamia Sabiana e alla corte degli spiriti: “O divinità di quel mondo sotterraneo in cui inesorabilmente finiamo tutti noi mortali, se mi consentite di dire la verità, rinunciando a ogni menzogna, sappiate che non sono venuto qui vivo per folle curiosità, sono venuto invece per la mia bella Adelasia, rapita, nel fiore dei suoi anni, da un turpe piano architettato dal suo perfido padre per sottrarla al nostro amore. Ho cercato con tutte le mie forze di adattarmi alla sua perdita, ma nulla potei contro il potere di Amore, che tutt’ora mi anima e guida. Questo dio è ben conosciuto nel mondo che vi sovrasta; non so se lo sia anche qui, ma lo spero! In nome di questi luoghi che incutono tanta paura, di questo immenso abisso, di questo regno del terribile silenzio, vi prego: ritessete le fila del destino di Adelasia spezzate anzitempo dalla malvagità. Tutto è vostro: noi rimaniamo poco in vita e prima o poi ci affrettiamo tutti verso quest’unica sede. Questa è la meta, questa l’estrema dimora di tutti quelli che appartengono al genere umano, su cui voi esercitate il vostro dominio per un tempo infinito. Anche Adelasia, quando avrà compiuto la sua vita, vivendo un numero equo di anni, sarà in vostro potere. Non è un dono quello che vi chiedo, ma un prestito. Se poi i fati non vorranno essere indulgenti, ho deciso di non ritornare in vita nemmeno io; due saranno i morti: godetene!”
A queste parole piangevano le sonnolente anime rese innocue dalla pozione di Oleastra, che sempre Aleramo teneva stretta tra le mani spargendone i fumi per tutto il Buranco. Le tristi e pallide anime non ebbero il coraggio di opporre rifiuto alla sincera preghiera del cavaliere. Adelasia si fece lentamente avanti scostandosi da un gruppo di spettri. Aleramo le corse incontro la abbracciò, se la strinse al petto e prese e baciarla pieno di passione. Adelasia ricambiava i baci con altri baci e rideva e piangeva insieme. Ma un’anima pia li sollecitò a partirsene da quel luogo maledetto e fare presto ritorno al mondo dei vivi. Non si attardarono oltre. Veloci i due, in mezzo a un impressionante silenzio, per un sentiero erto, faticoso, coperto dalle tenebre opache di una fitta nebbia, erano quasi del tutto fuori del Buranco. Ormai vicini all’uscita ripresero a baciarsi con baci di passione feconda. Ma Lamia Sabiana, riavutasi dalla torbida sonnolenza in cui era caduta per effetto della pozione, volò veloce e tentò di risucchiare indietro Adelasia. Tendevano i due amanti le braccia l’uno all’altro nello sforzo di afferrare e farsi afferrare. Ce la fecero; e Aleramo, con l’ultima forza che gli rimaneva nelle braccia riuscì a gettare fuori Adelasia e a seguirla. Fuggirono rapidi lontano da quel luogo di morte.
Ottava notte. Il duello, dove Oleastra lotta e sconfigge Lamia Sabiana mentre i saraceni invadono il palazzo e uccidono Alfonso II.
Lamia Sabiana uscì furiosa dal Buranco. Terremoti, fulmini e saette precedettero la sua comparsa. Fuori l’attendeva Oleastra. Come la regina della notte apparve, questa gridò alle sue fide Ondine e Coralline di andarsi a mettere al riparo dietro la rupe. Cominciava il duello tra le due grandi nemiche. “Vile! Non passerai mai oltre questo luogo. Hai finito di nuocere al genere umano, ti ricaccerò nella tua orrida palude, ti avverto” – gridò Oleastra. Una risata echeggiò nella valle: “Povera illusa, cosa credi di poter fare? Pensi di spaventarmi con le tue sciocche minacce di fata? Sarai tu a soccombere questa volta. E per sempre! Sono stufa del tuo continuo intrometterti in questioni più grandi di te. Avrei dovuto dare ascolto alla mia povera madre e ucciderti quando già ne avevo avuto l’occasione.” E ciò detto cominciò a lampeggiare dagli occhi saette di fuoco che miravano dritte al corpo della regina delle fate. Oleastra volteggiava in aria evitando i dardi. Volando tra essi riuscì ad avvicinarsi a Sabiana e a colpirla a più riprese. La malefica cadde a terra, ma subito pronta si rialzò più furiosa di prima. Scatenò una tempesta, poi un tornado: e ghiaccio e fuoco si mischiavano sciogliendosi e ghiacciandosi l’uno contro l’altro nel tentativo di imprigionare e bloccare prima, e colpire poi, la coraggiosa Oleastra. Questa, a tratti rapita dentro il terribile gorgo di vento, colpita dalle saette e dai fulmini, riusciva comunque a scagliare contro la Lamia i suoi incanti: prima una turba di animali silvani la attaccò e la distrasse tenendola impegnata; poi i folletti del bosco, unitisi come in un’unica creatura, la presero al lazzo per le caviglie e la trascinarono dal cielo nel quale volava sul duro terreno.
Intanto il palazzo veniva invaso dai Mori che, per la seconda volta, sbarcavano su quelle plaghe. Ma ora venivano con maggiori forze e armi. Capitanati dal principe Malco che, con il passare degli anni, fattosi uomo, era divenuto più cauto e saggio, avevano intenzione di conquistare l’intero regno, installandosi a palazzo e sostituendosi ad Alfonso II e alla sua corte. Anche sulle loro terre si favoleggiava delle terribili angherie del crudele re, che tanto faceva soffrire sua figlia e il suo popolo. I saraceni furono per questo accolti come liberatori. Cosa poteva ormai sperare quella povera gente dopo tanti e lunghi giorni di interminabili brutalità e dispotismi, patiti per mano di un dissennato signore. Fu facile per Malco e Merudina – la coraggiosa guerriera dalle pelle morbida come le foglie d’ulivo e i capelli neri come una notte senza luna – penetrare nel palazzo. Erano aiutati dai fidi generali Sibillo e Salop, che tenevano impegnati i cavalieri e i soldati del reame. Quando furono nella sala del trono, Alfonso II tentò un’improbabile difesa brandendo una sciabola contro lo stupore del principe saraceno. Per Malco fu facile disarmarlo. Senza dignità e onore il re supplicava il perdono e la grazia, ma Malco – che non si fece intenerire – gli sferrò un fendente, trafiggendolo dritto al cuore. Alfonso II pagò così gli infiniti dolori che inflisse e di cui fu causa.
Giungevano Adelasia e Aleramo al palazzo proprio nel bel mezzo degli scontri; i duelli si susseguivano per le stanze e i corridoi, nel giardino e sulle mura. Tutto il palazzo era preso nella convulsa battaglia. Non fecero in tempo ad accorgersi che il luogo era troppo insicuro per rimanere che, una freccia scoccata da Sibillo in direzione di un cavaliere che sopraggiungeva, andò a conficcarsi tra le ossute scapole della bella Adelasia, che cadde come morta tra le braccia di Aleramo. Dopo il primo attonito stupore, il giovane si mise a correre come un matto sempre tenendo stretta in braccio a sé l’inerte principessa. Tanto aveva combattuto per riaverla che non poteva perderla un’altra volta! Entrato nel bosco, gridando, chiamava in suo soccorso i folletti e il loro re Vendemmiale. Ecco che dai cespugli e dalle fronde apparve una foltissima schiera di piccoli esseri che si fecero visibili ad Aleramo. Il piccolo popolo, dispostosi come un esercito di migliaia di formiche, caricò su di sé la sfortunata Adelasia e la condusse a grande velocità da Vendemmiale. Solamente l’acqua di lunga vita avrebbe potuto salvarla, ma solo Vendemmiale conosceva il luogo segreto della magica fonte, e solo lui avrebbe potuto condurvi Adelasia e bagnarle le labbra alla benefica acqua. Grazie ai folletti e alla magnanima bontà di Vendemmiale, che era ancora legato da paterno affetto nel ricordo degli insegnamenti impartiti ad Aleramo durante la sua fanciullezza, Adelasia bevve alla fonte e fu salva. Riprendendo i sensi, chiese al suo bel principe che cosa fosse accaduto: “Che è stato amore mio? Dove ci troviamo? Perché siamo così, presso questa cascata?” Aleramo rise di gusto e le raccontò tutto quanto era successo: l’uccisione di suo padre prima, la freccia che l’aveva colpita, l’aiuto miracoloso dei folletti e di Vendemmiale poi. Non senza aver ringraziato con grandi e ossequiosi inchini il loro silvano salvatore, i due innamorati si incamminarono nuovamente verso il palazzo. Restava da scoprire che cosa ne fosse stato e che fine avesse fatto Regina Luna piè d’Oca.
Non appena atterrata dai folletti, Lamia Sabiana fu da questi legata a stretto nodo sia nella mani sia nei piedi, e messa nelle condizioni di non nuocere più. Oleastra decise che sarebbe stata rinchiusa nella grotta che da quel giorno porta il nome di “grotta della strega”. Fu immersa fino al collo nei chicchi di riso, e le fate fecero un incanto per cui la strega non sarebbe potuta fuggire se non dopo aver contato il numero esatto di tutti i chicchi di riso dentro i quali era immersa. Le fate stanno da quel giorno a guardia della grotta, su di un ponte posizionato proprio davanti al suo ingresso, che prese così a essere chiamato “il ponte delle fate”.
Nona notte. Ancora un duello, dove Aleramo dà guerra a Merudina e l’uccide.
Adelasia e Aleramo, sperando di non essere veduti da alcuno, tentarono di penetrare da una porta secondaria del palazzo, ma furono scoperti da Merudina che si trovava quella notte di guardia sulle alte mura. Scese rapida la bella saracena coperta della brillante armatura e del pesante elmo – che, luccicando come avorio levigato ai bagliori della risplendente luna, la rendevano completamente irriconoscibile. Pareva un cavaliere di piombo fuso. “Chi sei e che vuoi? Perché tenti di varcare questa soglia che ti è interdetta? Qui ora regna Malco, signore dei Saraceni! Vattene, lascia per sempre questi luoghi se vuoi aver salva la vita tua e quella della tua amata” – gridò solenne Merudina sfoderando la spada. Aleramo, che aveva messo a riparo Adelasia, sguainò anch’egli la spada: “Venivo in pace, ma non rifiuto battaglia se la cerchi; misterioso guerriero.” Uno innanzi all’altro con le spade strette tra ambedue le mani iniziarono a duellare, rischiarati solo dalla luce plumbea della luna. Lo scontro fu memorabile. Le spade si urtavano scheggiandosi per la forza dei colpi. I piedi piantati a terra scavavano solchi profondi per non indietreggiare nemmeno di un passo. Più i colpi si facevano fitti più chiamavano altri colpi ancora, e il furore si sostituiva all’iniziale rabbia dei due. Pareva che alle sole spade i due volessero contrapporre l’intero loro corpo: cozzavano così con gli scudi, con l’armatura e anche con l’elmo. Tre volte Aleramo riuscì a cingere Merudina con le sue robuste braccia, e tre volte, la saracena, si liberava dalla presa. Si staccarono un poco per riprendere fiato, appoggiandosi al pomo delle spade. Ma poi, riavutisi in parte, come le misere ultime forze li assistettero, si rigettavano l’uno sull’altro correndosi incontro e sferrando un nuovo assalto che tingeva le spade di vermiglio sangue. Aleramo si avvide che Merudina era in difficoltà e se ne compiacque. “Misero! Di che ridi? Pagherai con il pianto tanta superbia” – gli urlò la saracena. “Chi sei? Valorosissimo cavaliere misterioso? Fai che possa sapere il tuo nome, poiché – o vinto o vincitore – ti possa onorare” – fu la risposta di Aleramo. Ma ecco che l’ora fatale giunta, ché non c’è più posto per Merudina tra i vivi. Aleramo le affondò il ferro nel petto e il caldo sangue iniziò a sgorgare, portandosi con sé anche la forza vitale della guerriera, che si accasciò lentamente al suolo proferendo con voce ormai flebile e soave queste ultime parole: “Amico hai vinto: io ti perdon…Perdona tu ancora, al corpo no, ma all’anima sì.” Aleramo si commosse davanti a tanto nobile valore. Immaginate allora quando – sfilando l’elmo alla morente per aiutarla negli ultimi respiri – si avvide con grandissimo stupore che si trattava di una donna. Si guardarono negli occhi, poi Merudina, alzando la mano bianca e pallida verso Aleramo gli porse un segno di pace. Morì: e pareva dormire.
Decima notte. L’amore, dove il principe Malco si innamora di Regina Luna piè d’Oca e le chiede di sposarlo.
Nel pieno dell’invasione saracena, mentre infuriava la battaglia tra i difensori del palazzo e i temibili mori, Regina Luna piè d’Oca si era asserragliata nel più alto torrione insieme a un fedele suo cavaliere. Si temette vinta quanto seppe dell’uccisione di Alfonso II e vide i mori che giungevano in forze a circondare il torrione. Senza perdersi d’animo, dato l’allarme, apprestò con il cavaliere una strenua difesa, armando guardie, famigli e contadini; decisa anch’essa a morire, piuttosto che cadere nelle mani dei pirati, indossò una maglia di ferro e col capo protetto dall’elmo, salì sulle mura, impugnando la spada. Lo sparuto gruppo dei difensori non resse però all’impeto degli aggressori, che, lanciando entro la torre fiaccole ardenti, spinsero i superstiti, incalzati dalle fiamme, a ritirarsi di piano in piano, fino alla sommità. Colpito al petto da una freccia scoccata da Salop, il cavaliere cadde ai piedi di Regina Luna, che impulsivamente si volse verso i nemici, per fargli scudo con il proprio corpo. Alla mossa repentina, la gorgiera dell’elmo si slacciò, e la chioma si sparse come un manto sulle spalle dell’ancor giovane e intrepida regina. Gli assalitori si arrestarono, sorpresi ed esitanti, e il loro capo, Malco, abbassata la scimitarra, dopo aver intimato ai suoi di retrocedere, fece a Regina Luna solenne promessa di usarle rispetto. La fermezza del comportamento e la nobiltà delle parole la indussero a fidarsi dello sconosciuto vincitore, rinunciando al proposito di porre fine alla vita, precipitando sulle rocce sottostanti. All’iniziale istintiva simpatia e alla reciproca stima subentrarono tra i due legami più profondi. Malco preveniva ogni desiderio della regina e, con il linguaggio dei fiori che le faceva avere, cercava di esprimere l’amore che nutriva per lei. E fu così, senza bisogno di parole, che i due si rivelarono reciprocamente i sentimenti che racchiudevano nel segreto del cuore. Prendendo tra le sue la mano di Regina Luna, Malco le pose al dito un anello e le dichiarò il suo amore. La dama era finalmente felice. Dopo una vita fatta di angherie subite dal perfido re Alfonso II, era libera di amare con cuore vero e sincero chi dello stesso sentimento la ricambiava con maggior forza.
Quando Adelasia e Aleramo riuscirono a rientrare a palazzo, trovarono Regina Luna piè d’Oca e il principe Malco già in così grande e familiare intimità che pareva essere da sempre stato così. Regina Luna non fece che esaltare le virtù di Malco, che con ogni riguardo la teneva per sua. E Adelasia e Aleramo, sollevati, non appena il saraceno entrò nella stanza, gli si fecero incontro per esprimergli la loro gratitudine.
Undicesima notte. I preparativi per i matrimoni, dove si preparano le nozze di Malco con Regina Luna Piè d’oca e – finalmente – di Aleramo con la bella Adelasia. Sibillo e Salop entrano nel regno dei folletti.
Con Alfonso II ucciso e Lamia Sabiana imprigionata per sempre, più nulla poneva freno all’amore dei due giovani Adelasia e Aleramo, che finalmente poterono convolare a giuste nozze. Ma i matrimoni da celebrare saranno due perché nello stesso giorno si sposeranno anche Malco e Regina Luna piè d’Oca. Così venne deciso a palazzo dalle due coppie, che parevano gareggiare vicendevolmente nell’amore che si portavano l’una con l’altro. Cominciarono subito i preparativi. Furono annunciate le nozze alla nobiltà e ai maggiori del regno presenti nella sala del trono che, ora, liberata della crudele figura di Alfonso II, era occupata dal più magnanimo Malco. Un brusio di rumorosa allegria si diffuse per la sala, e venne portato del vino nuovo per poter degnamente brindare e augurare ogni bene ai novelli fidanzati. Vennero avvisati i folletti e le fate con il loro re Vendemmiale e la loro regina Oleastra. Grande gioia animò la magica coppia quando lo venne a sapere. Erano stati loro a crescere Aleramo nella virtù e nel coraggio, e un velo di commozione bagnava anche i loro occhi di spiriti all’apprendere la lieta notizia. Risonarono gli squilli delle trombe e l’annuncio venne portato a tutti gli angoli del regno, fino nei villaggi più remoti lontano dalle città e dai centri maggiori. Il popolo festeggiava la novella con canti e giochi. I pescatori recavano in dono il pesce migliore per allietare il banchetto nuziale; i contadini tenevano da parte i frutti migliori per preparare dolci squisiti da donare alla principessa Adelasia e alla Regina Luna; i pastori intrecciavano i rami degli alberi per farne ghirlande da donare alle loro innamorate: tutti erano felici e il tempo trascorreva lieto nei preparativi. Alcune volte Malco e Aleramo – che si erano legati in sincera amicizia – andavano insieme a caccia e tornavano a palazzo con lauti bottini. Le due dame, finalmente liberate dall’oppressione del despota, erano libere di scambiarsi i loro più intimi segreti e le loro più riservate confidenze durante lunghe passeggiate nei giardini. Adelasia, alcune volte, si fermava a mirare qualche angolo del giardino, e raccontava a Regina Luna come in questo o quel luogo appartato, si fossero tenuti i primi convegni amorosi con il bell’Aleramo. Il piccolo popolo era in fibrillazione: i folletti apparivano e scomparivano veloci nel giardino e ai margini della città, facendo simpatici scherzetti agli uomini e spiandoli durante il loro lavoro. Vendemmiale si dava da fare con le sue vigne per portare in dono il miglior vino mai prodotto, e Oleastra istruiva le sue fate per confezionare i vestiti che sarebbero serviti alle regali coppie durante le nozze. Tutto il regno viveva libero in una piacevole operosità. Fu così che Sibillo e Salop, che erano entrati in particolare confidenza con il piccolo popolo, e passavano tutto il loro tempo in compagnia di questi esseri dei boschi, chiesero al loro signore Malco di poter entrare definitivamente e per sempre nella schiera degli immortali. Malco accordò la sua benedizione, ma disse che era necessario un incanto di Vendemmiale; non era sicuro che il saggio re accondiscendesse alla loro strana richiesta. Invece Vendemmiale era già stato informato: era felice di accogliere due nuovi buffi amici tra le sue schiere; aspettava unicamente il benestare di Malco. Quando seppe che questi non aveva manifestato nulla in contrario, con un magnifico artificio trasformò i due mori in piccoli folletti dal cappello rosso. Sibillo e Salop si misero a correre per il bosco insieme agli altri. Divennero i più dispettosi del gruppo e sempre, quando incontravano gli uomini per la campagna, facevano piccoli e grandi scherzi che tenevano tutti in apprensione per un po’.
Dodicesima notte. La festa, dove si celebrano i matrimoni e si balla la Rionda.
Il lieto momento era finalmente arrivato. Le due coppie di sposi erano bellissime. Oleastra accompagnava Aleramo e Malco, mentre Vendemmiale condusse Adelasia e Regina Luna. Vennero prese a testimone quattro dame e quattro cavalieri fedeli agli innamorati. Una folla immensa si accalcava nel palazzo solo per vedere i loro buoni signori e festeggiarli degnamente. La festa fu grandissima. Le campane suonavano a stormo, i musici cantavano poesie scritte appositamente per l’occasione. Ad ogni angolo, teatranti improvvisati e burattinai mettevano già in scena e narravano le peripezie d’amore che il bell’Aleramo aveva corso per amare la principessa Adelasia. I due erano già divenuti leggenda. Dopo la cerimonia, uscirono per primi dal balcone centrale del palazzo Malco e Regina Luna: salutarono e sorrisero alla folla sottostante, che li ricambio con un’ovazione. Ma il tripudio si scatenò quando li raggiunsero anche Aleramo e Adelasia. Il popolo li salutava e li baciava lanciando fiori e gridando e cantando canzoni di buon augurio. Le fate volavano per l’aria spargendo riso, petali di rosa e coriandoli che cadevano leggeri sulla folla e sulle coppie ormai unite nel sacro vincolo del matrimonio. I folletti, con Sibillo e Salop sempre in testa al gruppo, facevano una banda che con ogni sorta dei più strani strumenti musicali girava in tondo per la città suonando e cantando a squarciagola. Fu servito il grande banchetto. I cuochi, più che cucinare, pareva si fossero dedicati a produrre vere e proprie opere d’arte. Un trionfo di colori, profumi e sapori dilettava la vista, l’olfatto e il gusto dei convitati. Solenne era l’arrivo delle portate su grandi vassoi trasportati da un massiccio stuolo di servitori ai lati. Prima gli antipasti, poi i primi, le carni, i sorbetti, i pesci, i formaggi e le verdure. Alla fine i frutti più squisiti di ogni stagione e latitudine e la grande, immensa torta, che entrò nel generale stupore della sala. Al termine del pranzo, gli orchestrali intonarono La Rionda. Regina Luna e Malco aprirono le danze e, al cenno della mano del novello sposo e novello re, furono subito seguiti da Adelasia e Aleramo. Tutte le dame si misero a volteggiare davanti ai cavalieri in uno stuzzicante girotondo.
Quando Papà Lucerna ebbe terminato la sua storia, nella stanza grandi e piccini serravano gli occhi appesantiti da un piacevole sonno. Rimboccò a tutti le coperte, accarezzò teneramente i fanciulli, spense il camino e accese alcuni piccoli lumini per aiutare l’arrivo di Babbo Natale seguito dal fido consigliere Rupel. Già i due si stavano calando per il camino, la slitta con le renne li attendeva dolcemente posata sul tetto della casa ricoperto di tenera neve appena caduta. Quando Babbo Natale fu nella stanza lasciò a tutti il regalo che avevano domandato. Controllò sulla lista se vi fossero bambini cattivi a cui avrebbe donato, come monito, un nero pezzo di carbone; ma fortunatamente, in quella dolce pace familiare, non dormivano bambini cattivi. Papà Lucerna gli strinse l’occhio, gli offrì un poco di latte caldo con i dolci biscotti che tanto gli piacevano. Poi, accarezzato Rupel, si accese la pipa e, uscendo nel buio della notte, augurò a tutti Buon Natale!
Fine