Ci misuriamo con una stagione del vivere urbano dove il confine tra crescita e declino, inclusione e abbandono, centro e periferie viene continuamente riscritto.
La globalizzazione ha segnato una cesura nella lunga storia delle città europee. Per la prima volta le città non hanno la capacità e la possibilità di determinare autonomamente le scelte della loro crescita anzi, sono investite da processi transnazionali e traslocali non condizionabili localmente. Al contempo le città possono valorizzare il proprio capitale umano e sociale, il patrimonio culturale e ambientale. Mettere in campo progetti locali di sviluppo capaci di dialogare con il mondo. La città, a differenza di quanto accadeva nell’età fordista, è essa stessa la principale risorsa per lo sviluppo.
La nuova storia delle città si misura con le dinamiche globali e nel riuscire ad evitare, per citare Bauman, di diventare la “discarica dei fenomeni della mondializzazione”. Di ridimensionarsi per effetto dell’invecchiamento della popolazione e dell’impoverimento del tradizionale impianto economico. Le città si concentrano sull’innovazione e la competizione, nell’individuazione di nuove vocazioni in grado di evitare il declino, sulle reti tecnologiche e logistiche che possano garantire relazioni e integrazioni tra grandi aree urbane. Il futuro delle città oggi è legato all’essere in grado di trarre investimenti, conoscenze, persone. La rigenerazione e la riqualificazione delle aree storiche e delle aree industriali dismesse, l’espansione dell’attività legata al turismo, la e la valorizzazione del patrimonio artistico monumentale, la cultura come fattore economico, l’università e la ricerca; sono questi i tasselli dentro cui si ricerca un nuovo sviluppo. Nella logica delle tre T di Richard Florida (talenti, tecnologia, tolleranza).
Al tempo stesso la città globalizzata produce la moltiplicazione delle periferie. Senza una forte regia pubblica la città gentrificata coincide con la costruzione di più solide separatezze urbane. Vale per molti centri storici in cui si è persa ogni dimensione di valore d’uso consegnandoli al solo valore di scambio e di mercato. Disuguaglianze, perdita della qualità della vita, peso migratorio, sono elementi che vanno a formare quella che chiamiamo la “società della paura e dell’insicurezza”. Le periferie non sono più riconducibili al territorio gerarchizzato della città industriale. Né tantomeno rinviano ai vecchi quartieri operai. Le periferie coincidono piuttosto con tutti quei luoghi che perdono capacità d’azione e di relazione, che vedono peggiorare le condizioni di vita degli abitanti e le loro possibilità di connessione con l’insieme dell’area metropolitana indipendentemente dalla maggiore o minore distanza dal centro. Si diventa periferia e spesso, si diventa periferia con rabbia. Le città sono costrette a misurarsi con le lacerazioni della comunità, l’impoverimento, le dinamiche di esclusione. E si differenziano tra loro nel riuscire a garantire la crescita del capitale sociale, il know how collettivo, l’accesso all’istruzione e alla protezione sociale per tutti.
La periferia rinvia quindi ai caratteri strutturali delle scelte di sviluppo e, al tempo stesso, sottolinea con estrema chiarezza i processi pesantissimi di emarginazione. Abbiamo ormai periferie al quadrato e al cubo. Rigenerazione urbana e nuove periferie sono i tratti di una costante trasformazione delle città. Per collegarli in un circuito virtuoso bisogna partire dal “diritto alla città”, richiamando Lefevre. E cioè come sia necessario oggi misurarsi con processi di riqualificazione che non si fondino soltanto sulle logiche contingenti del profitto quanto su una cultura della pianificazione da tempo abbandonata. Perchè la periferia non si ricuce da sé. Basti pensare a quanti progetti di recupero urbano sono poi crollati su sé stessi. La periferia si rigenera in termini di qualità urbana solo se ritrova percorsi di connessione. Affrontare i temi della periferia significa affrontare i temi del ridisegno della città, delle funzioni urbane e della delocalizzazione delle funzioni urbane. La stessa velocità del mutamento, comporta il misurarsi con processi che producono riequilibrio nell’ambito della città e rimettono in moto energie e capacità di relazione e di crescita. Anche da qui la necessità di sperimentare nuove forme di democrazia urbana. Le città si devono ripensare, non soltanto da un punto di vista urbanistico ma, anche dal punto di vista dell’organizzazione istituzionale e costruire partecipazione ed un costante esercizio dei diritti di cittadinanza.
L’epidemia ripropone tutti queste questioni insieme. Ci consegna la necessità di nuove visioni della città. Ridisegna il rapporto tra centro e periferia e apre una riflessione cruciale sulla prossimità e la centralità del territorio. Sullo spazio pubblico, le reti commerciali, le reti logistiche e di trasporto. Oggi non possiamo ragionare sulla città senza misurarci con quella che sarà e dovrà essere la città di domani. La questione stessa dell’attrattività deve collegarsi ad un elemento di ricostruzione delle comunità. Non c’è città capace di attrarre investimenti e persone se non è in grado di difendere e valorizzare i propri abitanti. Siamo davanti a due modelli: il primo è quello della città che si concentra, di volta in volta, su nuove aree, abbandonando quelle precedenti da un punto di vista urbano ed umano; e poi abbiamo il modello della città che prova a tenere insieme i fattori della competizione. Una competizione di qualità, con uno sviluppo capace di traguardare il tempo e, al tempo stesso, di far crescere e proteggere le persone. In qualche misura l’irruzione del virus determinerà l’adozione del secondo modello.
Come sempre nella storia delle città, la pandemia contribuirà a ridisegnare le città. Così oggi, ci troviamo davanti ad uno straordinario ridisegno, non tanto degli spazi materiali quanto delle reti immateriali. E questa è la nuova grande sfida delle città. Su cui siamo in ritardo. Con il rischio che ne prevalga il volto oscuro della riduzione delle relazioni, dell’isolamento, della desertificazione sociale. Quando, all’opposto, può rivelarsi una straordinaria opportunità di connessione, di conoscenza, di pari opportunità, di riorganizzazione dei tempi urbani, di una crescita ambientalmente sostenibile. Ancora una volta tutto è legato alla regia. Tra le cose che dovremmo avere imparato in quest’anno c’è quella che l’emergenza sia essa sanitaria o sociale non può tradursi solo in logiche emergenziali. Perché destinate, per quanto indispensabili, a mostrare rapidamente la corda. Ad amplificare le criticità non affrontate e non risolte. All’opposto, e per le stesse ragioni, l’emergenza può innescare un ripensamento che contribuisca a superare i fattori di crisi preesistenti. Anche per questo i temi della cultura, del turismo, dello sviluppo sostenibile, del riequilibrio sociale, del ridisegno delle città, devono essere l’occasione per l’ingresso di una nuova generazione dentro la nostra vita civile, con funzioni e sguardi molto diversi dalle generazioni precedenti.
Luca Borzani, Direttore de La Città