Startup all’italiana

Da alcuni anni è di gran moda parlare, molto spesso a sproposito, di innovazione, start-up, fab lab, incubatori, acceleratori, venture capital, business angel, exit e tutta la mitopoiesi correlata. Un gran bel carrozzone da circo Barnum.

Secondo noi ci sono alcuni grandi equivoci. Primo equivoco. Tutta questa messe di termini, che poi portano con sé un ben preciso e definito universo semantico e ideale, è presa e mutuata a freddo dal sistema economico e dal mercato americano. Un’importazione senza passare dalla dogana, si direbbe. E senza fare i conti con gli specifici del tessuto economico del sistema italiano, che è profondamente diverso rispetto a quello americano. Insomma, scimmiottiamo gli americani, senza guardare ai nostri specifici. Il sistema americano è cresciuto attraverso un rapporto inscindibile tra università, campus, ricerca, sviluppo, spin off, impresa privata e capitale di rischio. Gli investimenti in ricerca, sia pubblici, sia soprattutto privati, negli USA, sono imparagonabili rispetto a quelli del nostro sistema economico. Le imprese sono di dimensioni molto grandi, con budget infinitamente superiori da destinare alle divisioni R&D (ricerca e sviluppo) interne alle aziende, ma da destinare anche al capitale di rischio da “mettere” su nuove iniziative imprenditoriali esterne all’azienda. Il capitalismo americano è “fatto” così. Funziona così. E lì, da loro, quasi sempre, funziona bene. Tranne quando si sbaglia, chiaro. Ma quelle sono divertenti (forse non tanto per chi ci si ritrova preso in mezzo) eccezioni che confermano la regola da una parte e che denunciano l’eccesso di storytelling che si sta facendo sul tema dall’altra. Pensiamo a Juicero, lo spremifrutta inutile. Ma di qua dell’oceano le cose sono diverse, molto diverse. Imprese piccole, spesso a gestione famigliare, non quotate, con divisioni di ricerca e sviluppo interne e non interessate – proprio perché non abituate a investimenti costanti, a investimenti come prassi, in nuove aziende innovative dello stesso comparto. Insomma, qui da noi il capitale di rischio non c’è. E se manca quello, hai voglia a fare incubatori, acceleratori, business angel. Non si fa innovazione con il capitale di debito delle banche. Oggi c’è da dire, per la verità, che qualche piccolo segnale evolutivo lo possiamo registrare. La finanza pubblica, sia a livello di stato centrale, sia a livello di finanziarie regionali, comincia a muoversi con progetti di quasi-equity a sostegno dell’imprenditoria innovativa (ndr. Quasi-equity: “Hai una bella idea? Presentamela. Se mi piace e il business plan tiene, diventiamo soci a termine. In un ciclo economico di cinque anni o più, io esco dall’impresa e tu potrai camminare con le tue gambe e generare ricchezza per te e per gli altri…”). Ma qui da noi è sempre e ancora il pubblico che interviene (poco), il privato latita. Perché? Perché la storia è andata così. Non credo che serva consigliare una lettura un po’ fuori moda come L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber.

L’innovazione non si fa con le idee. Questo è il più grande equivoco. Le idee le hanno tutti, o quasi. Quello che manca sono i capitali – veri – destinati all’execution dell’innovazione. E chi li ha se li tiene per fare la propria, di innovazione, in casa, cioè interna all’azienda. Citando la celebre massima di Mallarmé che diceva che le poesie non si fanno con le idee ma con le parole, bene così è per l’innovazione: che non si fa con le idee ma con i capitali.
Poi ci sono gli imbonitori, sempre da circo Barnum, che sfruttano la buona fede, la passione, la voglia imprenditoriale di giovani o più o meno giovani, per “vendere” concorsi, hackathon, incubatori di non si capisce che cosa e di cui non si comprende la reale utilità.
Terzo equivoco. Forse il peggiore. L’innovazione non è qualcosa di nuovo. L’innovazione è il genere umano nel suo percorso circolare. Di invenzione e reinvenzione. Di scoperta, falsificazione e nuova scoperta. Un percorso infinito. Popper: la falsificazione come metodo e la miseria dello storicismo. Abbiamo scoperto il fuoco e come controllarlo. Abbiamo inventato l’utensile e la ruota. Insomma, mi viene in mente una delle scene più famose di tutta la storia del cinema. Il salto dall’osso-utensile alla navicella spaziale di Kubrick in 2001 Odissea nello spazio. Poi chiaramente vi sono epoche più votate a innovare e epoche meno votate. E la nostra è certamente un’epoca di grande innovazione, ormai da almeno 200 anni. Dalla prima rivoluzione industriale. Solo che bisogna stare attenti a non fare confusione tra la vera e la finta innovazione. Ho visto luccicanti negozi di stampa 3D aprire e chiudere nel giro di un anno. Forse applicando un gran bel principio metodologico come quello delle “rasoiate” fissato da Guglielmo di Occam nel Trecento si eviterebbe tutta questa confusione. Chissà? Lui non ce lo può più dire.

Federico Alberto

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