Partecipazione politica e comunicazione politica non sono certo la stessa cosa, anzi, seppur due facce di una identica medaglia, al potenziarsi dell’una pare corrispondere un direttamente proporzionale depotenziarsi dell’altra. Cosa vogliamo dire? Che più la politica è realmente partecipata meno questa avrà bisogno di comunicazione “pubblicitaria”, e viceversa. Almeno così ci pare.
Proprio in forza di questo reciproco rapporto di inversa proporzionalità ci sentiamo titolati a dire la nostra sulla partecipazione politica o – semmai – visti questi tempi, sulla sua quasi totale assenza da parte di quelle che il Novecento definiva le masse e che oggi toccherà – forse per fortuna – definire le persone. Si sa, ormai, perché detto in ogni dove, che i mezzi di comunicazione di massa stanno tramontando, o meglio si stanno modificando ed evolvendo in mezzi di comunicazione verticali: quasi uno a uno e sempre più orientati a parlare a singolarità piuttosto che a cluster di target multipli.
Può essere utile per analizzare i fenomeni di partecipazione politica attribuire un valore qualitativamente più alto a quest’ultima, da intendersi sino all’impegno (quello che potremmo chiamare, con terminologia del marketing e della comunicazione: advocacy), verso la più semplice comunicazione politica, da intendersi come attività di grado inferiore rispetto alla ricerca e richiesta di “vera” partecipazione. Si vede subito come un fatto quantitativo abbia immediata ricaduta sul “fatto etico”: ovvero, la comunicazione politica dovrebbe avere come suo obiettivo quello di generare partecipazione vera e reale, non quello di generare semplice consenso. Quando la comunicazione politica accantona il suo vero obiettivo – quello cioè del coinvolgimento delle masse o delle singole persone nel dibattito, al fine di migliorarlo grazie ad un’opinione pubblica sempre più formata e consapevole (e su questo terreno scuola, istruzione ed educazione civica sono determinanti), diventa propaganda.
Le società democratiche, realmente democratiche, hanno molti limiti, ma non certo quello di non avere tra i loro principali obiettivi la libera circolazione delle idee all’interno del dibattito pubblico. Al contrario, le società non democratiche (sino alle più spietate dittature) hanno l’obiettivo di impedire la libera circolazione delle idee. Questo viene attuato, oltre che con ogni mezzo di limitazione e coercizione della libertà personale, con la propaganda.
Diventa allora palese che la propaganda è una forma degenerata della comunicazione politica. Oggi, non solo in Italia, ma di certo molto nel nostro paese, la comunicazione politica è degenerata in pura propaganda politica. Benché da più parti si gridi alla necessità di riattivare la partecipazione, dall’altra non si fa nulla di più che gestire il rapporto con l’elettorato attraverso annunci solo e smaccatamente propagandistici, spesso interpretando i dati in maniera strumentale o addirittura menzognera.
La reale partecipazione ha bisogno di qualità del dibattito e tempo per il dibattito. Due caratteristiche che non sembrano appartenere al mondo della politica – ovvero dei media – di oggi. Sì, dei media. La politica oggi – è sotto gli occhi di tutti – ormai è schiava dei media, succube della dichiarazione giornalistica. Che politica e giornalismo e anche comunicazione tout court siano da sempre andati di pari passo non deve stupire. Che cosa sarebbe la politica senza la comunicazione? Niente, semplicemente non potrebbe esistere. Il problema di oggi, secondo noi, è di altra natura. Ovvero che l’agenda politica sia dominata – nei tempi e nei modi – dal palinsesto televisivo-digitale. Ecco che il programma politico è pensato più come la scaletta di un autore tv – più come uno strumento per piacere, piuttosto che come uno strumento per fare, per incidere sulla realtà.
La politica ha derogato a una delle sue funzioni: l’onere della decisione concertata nei modi e nei luoghi deputati a favore dell’onore del sondaggio d’opinione. La tattica ha definitivamente vinto sulla strategia politica e i risultati sono quelli di un paese in progressivo disfacimento.
La democrazia è lenta, la sua velocità non è la velocità del nostro stare nel mondo, del nostro iper comunicare, del nostro continuo tempo reale.
La politica si è persa nella comunicazione. Oggi, dal suo minimo storico chiede una sua nuova apologia che riparta da cosa essa essenzialmente è stata e potrà essere. Fare un’apologia della politica oggi significa – inevitabilmente – aderire a un umanesimo rinnovato ancora una volta nel gesto di fiducia nell’uomo: significa fare apologia della speranza. Non si tratta di avere un’ideologia, non più, si tratta di avere un’ideale. Così, da figli di un mondo secolarizzato e da orfani di un mondo privo di ideologia non resta che aprirsi necessariamente alla possibilità. È proprio la presa di coscienza della totale parzialità e relatività della verità che dischiude l’agire alle infinite potenzialità dell’accadere; agire che dovrà essere guidato da una visione etica. Speranza come strumento per darci il coraggio e l’incoscienza (sempre in bilico tra il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà) di afferrare tutta l’infinità di possibilità che si agitano in embrione nel reale.
«Intraprendendo la costruttiva via della fantasia, invocando ciò che non c’è ancora, cercando e costruendo nell’azzurro il vero, il reale, là dove il puro dato di fatto scompare – incipit vita nova»
(E. Bloch, Spirito dell’utopia)
Ricordandoci sempre che alla fine del sentiero della storia non c’è una casa accogliente e definitiva, ma semmai una radura, o – più probabilmente – l’incipit di un nuovo sentiero sempre uguale al precedente.
« Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono»
(Ernst Bloch, Il principio Speranza)