Troppi strumenti PER comunicare e troppe poche buone idee DA comunicare.
La paura del giudizio e le sinestesie: croce e delizia della brand identity
A lezione con Francesco Buschi di Future Brand.
Basterebbe vedere le strategie di posizionamento di Trader Joe’s, (il supermercato USA) e la sua filosofia della felicità facendo la spesa e ci si potrebbe fermare lì.
Tuttavia, varrà la pena, con Buschi, approfondire. Per punti.
- L’identità di marca è la totalità del processo di significazione della brand.
- La brand equity è la carta d’identità della marca.
- perché ESISTI (motivazione sociale e proposizione di valore)?;
- perché SEI DIFFERENTE?;
- perché DOVREI CREDERTI?
- I primi evangelist (advocacy) di marca sono i dipendenti.
- Fare brand è un processo che richiede tempo, ricerca, studio, attenzione, ascolto.
- Fare la stessa cosa (del punto 4) con focus group per meglio comprendere il mercato prima di prendere la matita in mano e disegnare visivamente la nuova identità della marca.
- Il processo di creazione dell’identità di marca è un processo dialogico che si deve basare sulla coerenza e sulla sincerità. Non c’è nessuno da “fregare”. A questo proposito, assolutamente da vedere, il progetto di rebranding di Fiji Airways.
- Oggi il mercato, ma si dovrà dire le persone, non vogliono sapere “che lava più bianco” ma “perché il bianco è meglio” e cosa ci “porta alla vita”.
- Adattare le metodologie al cliente e non il cliente alle metodologie dell’agenzia: questo è il vero tailor made orientato al cliente. Basta con processi troppo rigidi.
- Saper comporre il progetto armonizzando veramente diverse competenze provenienti da ambiti differenti.
- Dare tempo alle brand di cambiare…essere rispettosi, soprattutto in Italia con le imprese famigliari, dei tempi lunghi della costruzione identitaria.
E dovrà necessariamente rispondere a queste tre domande, che stanno alla base del self branding:
Un consiglio: quando incontriamo i nostri clienti per aiutarli nel processo di costruzione della loro identità di marca non dimentichiamo di testare preliminarmente quali sono i gusti, le propensioni, le emozioni, le credenze, i valori, le idee dei nostri interlocutori, ovvero delle persone che “fanno il brand”. Anche con semplici test per identificare i concept, intesi come driver e insight principali di scelta del management o degli owner del brand. Un esempio: tre quadri del Novecento a confronto, uno di Mondrian, uno di Picasso, uno di Wharol. Scelga il brand il suo preferito. Ne trarremo molte risposte.
Un esempio su tutti: il marchio Patagonia manda un furgone con una sartoria mobile e una sarta da chi li chiama per aggiustare un loro capo. Il contrario di far comprare più giacche, il contrario del consumismo. Con questa iniziativa, che è diventata anche una campagna di comunicazione “Don’t buy this jacket”, Patagonia ha fatto il +300%.
Un decalogo. Senza dimenticare però, che “chi fa il piano per la battaglia non fa la battaglia al piano”. Il progetto di branding è un processo che si fa insieme: coinvolgendo, condividendo, partecipando. E senza perdere il piacere delle cose fatte bene. I giapponesi lo chiamano Monozukuri.