L’Italia, gli italiani, il mondo intero, si sono fermati. I novanta giorni che hanno cambiato il mondo saranno uno dei tanti titoli possibili per libri e film che usciranno nei prossimi mesi e anni per raccontare, e raccontando interpretare e metabolizzare nella catarsi, quanto ci è accaduto. Non è tutto finito, ma in larga parte ne siamo fuori. Forse il virus tornerà con maggiore forza in autunno: speriamo non sarà così, ma chi lo può dire?
Questa tormenta, questo tormento, ci hanno cambiati: non in meglio, non in peggio. Meglio e peggio sono categorie morali. Il cambiamento è antropologico, nella misura in cui il virus ci ha costretti ad aggiungere un altro pezzo al puzzle della disumanizzazione, alienazione e straniamento come definitiva perdita della natura che aveva, solo per fare un nome, cominciato a vaticinare Pasolini quando non trovava più le familiari lucciole nelle sue sere d’estate. Se la nostalgia dell’origine è un sentimento a tal punto connaturato all’essere umano da farne uno dei pilastri portanti della sua struttura inconscia, se il rimpianto dei bei tempi andati era già cantato molto bene dai satirici greci e latini, se il mondo perduto e l’arcadia ci sono sempre stati giusto nella nostra testa, e quindi nell’arte e nella letteratura, anche questa volta – però – così come in tutti i grandi sconvolgimenti di un’epoca, qualcosa abbiamo perso davvero.
Chiusi in isolamento per contrastare una minaccia per la nostra specie che usa noi stessi come veicolo per abbatterci. Sapere di essere al tempo stesso vittime di noi contro di noi e carnefici dell’altro è stato doloroso e complicato da accettare almeno tanto quanto il costringerci, più o meno volontariamente, a rivedere nell’arco di una manciata di giorni le nostre abitudini consolidate negli ultimi secoli di “magnifiche sorti e progressive” che ci hanno dato, ormai definitivamente, lo scettro regio del nostro potere affermato sul mondo e sulla natura. La specie padrona messa a rischio di potenziale estinzione, o quanto meno di revisione totale di se stessa, da un virus che – ancora oggi – nonostante tutto il nostro sapere e saper fare, non sappiamo bene da dove sia venuto e se e quando se ne andrà. Nel frattempo, e aspettando il vaccino, continuiamo a trasportarlo nei nostri corpi, perfetti risciò, velocipedi del contagio. Così, i gesti che ieri, nella loro sbadata naturalezza, non facevano pensare, come quando si stringeva una mano per lavoro o per piacere, nel piacere o nel dovere dell’incontro, oggi diventano motivo di infiniti pensieri.
Sostituire le mani con i gomiti e gli incavi delle braccia per fare le stesse vecchie cose con gesti nuovi è un’eredità, non si sa ancora se temporanea o definitiva, che ci lascia questo tempo doloroso. È la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. È un confine e una soglia. Come ha detto Carmelo Bene a Bologna dopo l’orrenda strage della stazione, ci sono i morti e i feriti a morte. La primavera 2020 con il suo carico di morti e di angosce quasi intollerabili nelle immagini dei camion militari che portano via salme senza esequie dalla città di Bergamo, ci lascia tutti feriti a morte. Nessuno poteva prevederlo, ogni stato nazionale ha grandi responsabilità, ma chi in questa tragedia ha avuto e ha l’onere del comando, un po’ a tutti i livelli della catena decisionale, ha compiuto errori e debolezze che in alcuni casi la magistratura, con il suo tempo doverosamente (o forse troppo?) lento sancirà come reato.
La famiglia, le famiglie, tutti i tipi di famiglia, ovviamente, si sono riscoperte pilastri fondamentali della vita sociale. Nelle categorie morali di cui si accennava sopra, questo possiamo metterlo nel meglio, dargli il segno più. Le distanze e gli isolamenti dall’altro e dell’altro sono per necessità cresciuti. E questo, invece, non può che avere il segno meno. L’America in fiamme di questi giorni mette in luce tutti i nervi scoperti di un Paese, ancora di più oggi con la destra xenofoba, turbo capitalistica e ignorante rappresentata da Trump al potere. Il combustibile della giusta rabbia di larga parte dei cittadini americani, neri e non, la cui uccisione per mano della polizia di un cittadino di colore è stato il semplice innesco di quanto già si aggirava nell’aria, non credo avrebbe potuto prendere piede con tanta forza senza il comburente del virus e la relativa scia di milioni di disoccupati privi di tutele e ammortizzatori sociali lasciati sulla strada di un malinteso senso di progresso che quel Paese sbandiera al mondo. E allora, almeno ogni tanto, nonostante tutti i limiti di noi stessi e del nostro Paese, proviamo ad essere più orgogliosi di essere italiani prima ed europei dopo, perché credo che abbiamo poco da dover imparare – nonostante il nostro ormai innegabile tramonto economico – dal regime cinese che ha fatto sparire i medici che per primi hanno cercato di denunciare la trasmissibilità del virus da uomo a uomo già nell’ultimo trimestre 2019 o dall’America che brucia sotto il peso delle sue irrisolte diseguaglianze.