Pensando… Sotto una coperta scura
Durante le vacanze estive ho guardato insieme a mio figlio di sei anni Balla coi lupi.
Nei giorni successivi – lo vedevo che rimuginava – ha iniziato a chiedermi degli Indiani d’America, della loro storia e, soprattutto del rapporto-scontro con l’uomo bianco: è venuto da sé ascoltare insieme a lui Fiume Sand Creek.
Parola dopo parola, ad ogni domanda “chi è il generale di vent’anni?”, “che cos’è l’albero della neve? E perché fiorisce di stelle rosse?” mettevo in pausa e spiegavo.
E nel perdermi a spiegare a lui ogni metafora – e a cercare di spiegargli prima di tutto che cosa fosse una metafora, alla Troisi – e ogni figura retorica della lingua italiana utilizzata da Fabrizio De Andrè, mi sono ritrovata a commuovermi e a toccare con mano quale davvero sia la cifra stilistica di questo poeta. L’umanesimo profondo. C’è un’umanità smisurata nelle parole delle sue canzoni. Descrivere il massacro avvenuto nell’attuale Colorado sulle sponde del Sand Creek nel 1864 con gli occhi di un bambino, ha lasciato a me, mentre lo raccontavo al mio di bambino, solo lo spazio per una commozione viscerale e autentica.
Così eravamo dentro la tenda ad assistere a un dialogo dentro un lago di pietà “Chiesi a mio nonno è solo un sogno, mio nonno disse sì”.
Un villaggio di circa 600 Cheyenne meridionali e Arapaho fu attaccato dalle truppe del “generale di vent’anni” John Chivington, a dispetto dei vari trattati di pace firmati dai capi tribù locali con il Governo statunitense. Un attacco vile: una carneficina indiscriminata di donne, anziani e bambini, perché la maggior parte dei guerrieri era lontana “sulla pista del bisonte”.
Sono parecchi i rimandi alla storia e ad altre metafore in questo brano (il dollaro d’argento, le tre frecce…), in tanti hanno scritto e ancora scriveranno a proposito di questa incredibile e meravigliosa poesia che in fin dei conti racconta la storia, non solo del massacro sul Sand Creek, ma dell’annientamento identitario di un popolo, il popolo delle pianure.
Allora, mentre raccontavo a mio figlio tutto questo e ci lasciavamo assorbire dal ritmo degli strumenti musicali di Faber e Massimo Bubola, ho avuto contezza, una volta di più, dell’incredibile potenza comunicativa che la musica e le parole hanno assieme quando sono tenuti insieme dal filo rosso della poesia. Racconti che sono e resteranno opere d’arte.